
Alla ricerca di Alesa antica Il professore Fucarino propone agli organi competenti la realtà di Alesa e la valenza della sua importanza storica dal punto di vista dell'indagine archeologica e della vastità del sito di Carmelo Fucarino
Alla domanda da me rivolta a Vincenzo Tusa del perché non dedicasse maggior cura al sito di Hippana, la città greca distrutta dai Romani, di fronte a Prizzi, da lui ricercata con scavi, mi rispose che Selinunte era l’area archeologica più estesa delle colonizzazioni greche e meritava maggiore impegno date la vastità della parte non esplorata e la ricchezza dei reperti. In altri termini Selinunte dava maggiori risultati eclatanti, vista l’area ancora non messa in luce, donava, diciamo, maggiore soddisfazione e fama.
Ecco, la mia proposta vuole porre all’attenzione degli organi competenti la realtà di Alesa e la valenza della sua importanza storica dal punto di vista dell’indagine archeologica e della vastità del sito, ancora poco curato dalla moderna ricerca e da solide campagne di scavi, in confronto alla fama non solo storica, ma anche turistica e mondana della vicina Taormina, della quale lustro è il teatro utile per spettacoli moderni, e parimenti della Tindari con la sua Madonna.
Questo scarso attuale rilievo dato alla città di pretta origine locale, dell’ethnos tucidideo siculo, trova una netta sconfessione nei secoli a partire dalla sua fondazione, se si esamina la sua storia e si mettono in rilievo gli edifici pubblici come l’agora e i templi che gravitavano e si evidenziavano nell’area già esplorata.
La città era citata nella storiografia greca dal nostro Diodoro Siculo (Agyrium, 90 a.C. - 27 a.C. circa) nella sua Bibliotheca historica, giunta incompleta e frammentaria, che è di estrema importanza per la storiografia dell’isola, nonostante gli errori e le sue scarse capacità critiche storiografiche dell’autore in un contesto espositivo di carattere annalistico e cronachistico.
Nel libro XIV, paragrafo 16, ne racconta la fondazione nell’anno 2° dell’Olimpiade XCIV, 403 a.C. da parte di Arconide, secondo capo di tal nome, di locale stirpe sicula, opera di tanto rilievo esistenziale da parte sua che nella completa denominazione la città è stata denominata e passata alla storia con il suo eponimo Arconidea: «Capo degli Erbiti, dopo che il corpo cittadino aveva concluso la pace con Dionisio, decise di fondare una città. Infatti aveva non solo molti mercenari, ma anche una folla mista che si era riversata in città in relazione alla guerra contro Dionisio; e molti degli indigenti tra gli Herbiti gli avevano promesso di unirsi alla colonia».
Così pure il geografo Strabone (Amasea, 60 a.C. - 24 d.C.) precisava che «anche l'ultimo e più lungo lato della Sicilia orientale non è popoloso, ma comunque è abbastanza ben popolato; infatti «infatti Alaesa, Tindari, l'Emporio dell'Egeste e Cefaloedide sono tutte città, e Panormus ha anche un insediamento romano» (Strab., Geogr., VI.2.5). La presunta citazione della città da parte di Claudio Tolomeo (Pelusio, 100, Alessandria d’Egitto 168) nella sua Geografia (Geographike Hyphegesis, «Guida geografica») è errata e confutata dal principe di Torremuzza nella sua Storia di Alesa (p. 4 -5).
Le informazioni più ricche sulla città e sul suo prestigio politico ed economico ci provengono in età romana dalle cosiddette Verrine di Cicerone che nell’orazione realmente pronunziata e in altre soltanto preparate la nomina spesso fra le Siciliae civitates multae, ornatae atque honestae, ex quibus in primis numeranda est civitas Halaesina (Cic., In Verrem, II, 3,170). «non ne troverete infatti una più fedele ai suoi doveri, più ricca di risorse, più importante per prestigio». Verre le aveva requisito sessantamila di moggi di grano all’anno, prendeva anche denaro; tuttavia non mandava quel grano a Roma con la scusa che era cattivo, ricorrendo ad una madornale truffa. A testimonianza di ciò invoca il registro degli abitanti di Alesa (In Verrem, II, 3, 171-176). Verre in sua difesa ricorrerebbe alla rivalsa, affermando che Alesa sarebbe stata una delle città che voleva rovinarlo (In Verrem, II, 3, 17, 20).
La città sarebbe stata ancora al centro di uno scandalo verriano per la causa intentata per l’eredità al ricco Dione che avrebbe perso un milione di sesterzi (In Verrem, II, 2, 19-20, 120). Anche questo episodio prova il prestigio economico della città e dei suoi cittadini. Essa fu certamente così favorita, per le ricchezze certamente, ma anche per l’adesione volontaria alla conquista romana, tanto che gli abitanti «per molti, grandi meriti e benefici loro e degli antenati nei confronti del nostro stato godevano di una legislazione propria, e poco tempo fa sotto il consolato di Lucio Licinio e Quinto Mucio, sorte delle controversie sul modo di eleggere i senatori, chiesero delle norme al nostro senato».
Il senatore Gaio Pulcro, consultati tutti i Marcelli , «seguendo il loro parere diede loro le norme», che si poggiavano sull’età, sulla fonte di guadagno, sul censo ed escludevano alcune professioni (In Verrem, II, 2, 122). Furono anche loro a deporre contro Verre e lo odiarono tanto (In Verrem, II, 2, 156, 166). Per di più, pur non essendo una città federata, fu senza pesi e libera da imposte come le cinque città fra le quali Centuripe, Segesta, Alice, ma anche Panormo (In Verrem, II, 3, 13).Da questi documenti risulta evidente che fosse una città popolosa, assai ricca e prospera in conseguenza della produzione e del commercio granario e che fosse tenuta in grande considerazione per avere accettato spontaneamente l’occupazione romana.
Dal punto di vista della sopravvivenza ci è ignoto quando la città fu abbandonata a favore del vicino insediamento di Naro. È certo che fosse ancora importante nel IV secolo, se viene indicata nella celebra Tabula Peutingeriana. Scarne notizie come sede arcivescovile e città dell’ambito bizantino, fino alla conquista musulmana con la loro fortezza Qalat al Qawàrabi a protezione del porto. Di estrema importanza per la conoscenza della città furono sicuramente le Tabulae Alesinae, due lastre marmoree, ritrovate nell’area delle rovine della città nel 1558, ove era descritto in greco l’ager alaesinus. In possesso della Compagnia di Gesù e passate in Spagna nel secolo XVIII e disperse.
Viste a Palermo da Giorgio Gualterio e dal filologo Jan Gruter, o Gruytere, noto anche nella forma latinizzata di Janus Gruterus, (Anversa, 3 dicembre 1560 - Heidelberg, 20 settembre 1627), il testo frammentario fu pubblicato dal principe di Torremuzza nel 1753. L’ager, secondo questo testo di probabile età ellenistica, era diviso in dodici temène dal lato del torrente Alesa, oggi Tusa, e in altri dodici dal lato del torrente Cicero, oggi Opicano, altri tre lotti, gli “Scireoni", si trovavano sulla cresta del costone che divide le due vallate.
C’era presso il torrente Opicano un tèmenos, un territorio sacro recintato con l’accesso proibito a macellai e conciapelli. Vi sorgevano quattro templi, due dentro le mura, dei quali il più importante dedicato ad Apollo, e due extraurbani, uno dedicati al dio siculo Adrano, padre dei Palici, legato ai fenomeni naturali (acqua e fuoco), perciò assimilato in parte e sovrapposto a Efesto, ol latino Vulcano con le sue fucine nelle viscere dell'Etna, e a Zeus Meilichio, mellifluo o dolce, epiteto di divinità ctonia. ateniese ed anche siceliota. Vi si trovavano inoltre dei bagni, un acquedotto, la fonte Ipurra, il tapanon e il tematetis.
Con questa indagine passiamo però ad altro tempo e ad altre testimonianze moderne che rimandiamo a un successivo intervento. |

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